13.2.13

Storia ONESHOT partecipante al contest "Rosso" di Rose's Creation


Tutto ciò che non ti ho detto.
“Red”




Il rosso del mio sangue è l'unico colore
non è della mia anima che parlo
è del mio corpo che non ha pudore,
un corpo che ha sofferto, che ha ceduto
che porta i segni di ogni scontro avuto
che non ha mai negato la paura
di camminare per la via più dura.
[…] – Mina



Credo che nella vita poco importi cosa hai realizzato, ma è alla fine, la fine di tutto, la fine di te, che comprendi cosa davvero ti ha reso vivo.
L’amore porta a gesti folli, anche quando ormai non c’è più nulla per te in questo mondo.
L’amore è rosso come rossa è la passione, rosso come il sangue che fluisce nelle vene, rosso come la fiamma e come tale brucia e brucerà ogni cosa.
C’è un tempo della vita in cui pensi di poter far tutto – ogni cosa ti è concessa da una vita lunga così tanto da non vederne la fine.

Ho studiato in scuole pubbliche come tanti altri, mi  sono laureato in lettere come tanti altri, e come pochi mi sono ritrovato con un bar tra le mani, lo stesso in cui lavorava mio padre.
Il fatto è… che tenendo troppo a quell’uomo, mio padre, ho lasciato tutto prendendo il suo posto. Mi sono lasciato alle spalle anni di studio per seguire le sue orme vedendomi un cucciolo rispetto a quello che lui era stato. Mi sentii perso risultando ai miei occhi come l’ombra di quello che era lui prima che morisse.

Nella mia vita già c’era Miles, conosciuto in università.
Eravamo nella stessa facoltà ed era frequente andare a prendere un caffè o studiare o uscire insieme.
Poi è accaduto, l’amore, rosso, ci ha presi in pieno.
Forte, impetuoso come il vento, ci ha portati ad essere un’unica cosa, un unico cuore, un unico battito.

Il viaggio per far conoscere Miles alla mia famiglia è stata la cosa più divertente.
Vederlo fermarsi agli autogrill solo per perdere tempo, fingere di avere fame e sete.
Aveva il terrore negli occhi, e io non potevo far altro che ridere.
Era davvero tutto, per me.

Alla fine, quando mancava qualche kilometro a casa dei miei, uscì fuori dall’auto facendosi prendere totalmente dal panico. Non si credeva la persona giusta, aveva paura di non essere abbastanza. Poi lo convinsi a fare il “grande passo”, e lasciammo la macchina sul ciglio della strada, facendo la restante distanza a piedi, mano nella mano.
Tanto timore, per poi vederlo conversare amabilmente con entrambi senza problemi.
Ma lui era così, era il solito che si faceva problemi quando in realtà doveva solo credere un po’ più in se stesso.
Abbiamo condiviso una casa, abbiamo comprato ogni singolo mobile solo dopo essere sicuri che piacesse ad entrambi. Lì la passione ci ha presi così tante volte alla sprovvista…
Lì potevamo essere noi stessi senza nascondere niente, lasciando che l’amore ci guidasse in ogni gesto ed ogni mossa come fossimo burattini nelle mani di Dio.
Abbiamo condiviso serate, film sul divano, cenette romantiche e litigi, così tanti litigi.
Insieme abbiamo fatto tante stupidaggini come prendere e prenotare un viaggio last-minute all’insaputa di tutti.

La vita mi ha portato a condividere con lui la perdita di mio padre, colto da un improvviso malore.
Il bar sul mare è diventato il mio tutto, la mia ossessione, e più mi avvicinavo a quello che volevo essere per mio padre, più mi allontanavo da Miles e… lui da me.
Di solito sento cose come “Non mi sono nemmeno accorto di non essere più l’unico per lui.” ma io lo sapevo, sapevo chi frequentasse, capivo quanto si stesse allontanando da me ogni giorno di più. Io mi allontanavo da lui e lui lo faceva da me.
Sapevo benissimo con chi usciva, sapevo che non era più mio.

Come un codardo rimasi nel silenzio, non dissi nulla, sperando che in qualche modo tornassimo gli stessi di prima, ma il cambiamento non ci fu né dalla parte mia né dalla sua.

Litigavamo spesso per il mio lavoro, ma sono certo – per quanto alla fine bene ci conoscessimo – che fosse un modo per riconciliarci. Aveva bisogno di me, di quello che ero, ma io non tornai mai più ad essere la persona che amava.

Un bel giorno, tornando a casa dal bar, non trovai più nessuna traccia del suo passaggio.
Ogni cosa che gli apparteneva non c’era più.
Era come se non fosse mai esistito.

Piansi, non dissi niente a nessuno.
Non mi aveva lasciato chiamate o biglietti, e altrettanto feci io nell’errore.
Ripresi a vivere senza di lui, anche se vivere è un parolone.
Fingevo che tutto andasse bene. Vivevo d’inerzia. Vivevo per il locale.
Era la mia ossessione…

Poi successe qualcos’altro.

Per me il colore rosso aveva sempre avuto un’accezione positiva.
La maglia che Miles portava il giorno in cui lo conobbi era rossa.
Il rosso è il colore dell’amore, ma rosso è sangue. Rosso è il male.
Rosso è tutto ciò che resta sulla lama di un pugnale nel cuore di chi hai amato e perso per sempre. Rosso è il colore di ciò che hai distrutto con le tue stesse mani.

Mi fu diagnosticato un tumore al polmone destro, e la mia vita si ridusse al lavoro e la chemioterapia, il massimo che si potesse fare.
Il rosso aveva lasciato posto al nero della sconfitta, della fine di tutto.
Ben presto le forze si erano ridotte a poco, tanto che fui costretto a chiudere momentaneamente il locale. Avevo affisso un “Chiuso per ferie” quando in realtà sarebbe stato per sempre.

E mentre il mondo continuava a girare, io me ne stavo fermo, immobile nel mio dolore fisico ed il mio smarrimento psichico. Passai mesi nel buio, nel nero del terrore, e quando mi ritrovai allo scoccare della fine dei sei mesi di tempo che mi erano stati dati, aprii gli occhi come un cieco che fino ad allora non aveva mai visto il sole.
Ma sì sa, l’amore è rosso, il colore della passione, della forza e della sicurezza.
E così, armato di coraggio, espressi il mio ultimo desiderio, chiamando quel numero ed ascoltando la voce che da tempo avevo dimenticato.
Chi lo ama è ottimista, deciso, impulsivo, e riuscii ad avere il mio dono.

Circa due giorni prima della mia morte eravamo lì, sulla spiaggia davanti al tramonto rosso, a dirci tutto quello che non ci eravamo mai detti. Doveva essere la fine, ma per me fu un nuovo inizio. Dovevo essere triste, mi sarei dovuto sentire perso sentendo la morte soffiarmi sul collo, ma in quel momento nell’ultimo bagliore di quella giornata estiva sotto la luce rossa del sole, il colore delle sue guance quando dissi “ti amo” per l’ultima volta. 

3.2.13

Sterek. Raiting verde. Oneshot.

Perché fossimo allacciati in un abbraccio, in un bacio che sapeva di tutto – di amore, di consapevolezza che ogni cosa sarebbe andata per il meglio – non lo ricordavo nemmeno.
Era tutto confuso, una miscellanea di colori, ma l’unica cosa che rimaneva nitida ed intatta nella mia testa era il ricordo del tempo che aveva capovolto ogni cosa, fatto rifiorire sentimenti andati, bruciati.
Perché forse Derek non è mai stato la persona più giusta per una relazione come quelle dei film, ma nell’errore ci siamo trovati a condividere tutto, ad amarci quando il mondo crollava su se stesso.



I think, I think when its all over it just
comes back in flashes, you know.
Its like a kaleidoscope of memories,
but it just all comes back. But he never does.
I think part of me knew the second
I saw him that this would happen.
Its not really anything he said, or anything he did,
it was the feeling that came along with it. And, crazy thing is,
I dont know if I am ever going to feel that way again,
but I dont know if I should.
I knew his world moved too fast and burned too bright,
but I just thought, how can the devil be pulling you towards
someone who looks so much like an angel when he smiles at you.
Maybe he knew that, when he saw me. I guess I just lost my balance.
I think that the worst part of it all wasnt losing him, it was losing me.

Taylor Swift  I knew you were trouble (intro)




Fuori casa Hale.
L’inizio di tutto.

Era stata una di quelle serate fantastiche. Ma non nel senso che fosse stata bellissima, meravigliosa e perfetta, era stata sì inconsueta e movimentata, ma certamente non in senso positivo e normale. Dopotutto avevo a che fare ogni giorno con licantropi, cacciatori e creature strane…

Perché? Beh, come risposta esaustiva possiamo dire un nome: Derek Hale.
Lo sapevo che sarebbe stato la mia rovina, dal primo istante – quello in cui sia io che Scott ce lo ritrovammo a pochi metri da noi nel bosco.
Rimase a distanza di sicurezza, come avrebbe imparato a  dire tutte le volte successive in cui avremmo condiviso lo stesso spazio vitale.
Né io né lui ci accorgemmo di quanto quella distanza stesse divenendo man mano nulla con il passare dei giorni, settimane… mesi.

Perché i suoi occhi guardavano troppo spesso me, ed ogni volta che lo facevano morivo dentro. Era come prendere fuoco, come se lui fosse una tormenta ed io un castello di carte. 
Cadevo, m’infrangevo in mille pezzi ogni volta che i suoi occhi cercavano me. All’inizio credevo – ero sicuro – mi odiasse e continuasse a tenermi d’occhio.
Ma il tempo porta grandi cambiamenti, porta a conoscere meglio il prossimo nonostante questo ostenti l’indifferenza; e l’apparente misantropia di Derek celava ben altro.


Vederlo fuori dalla finestra la notte, vedere la sua macchina ovunque io mi trovassi, fu solo il primo indizio. La lunga scia di briciole che Derek Hale si stava lasciando dietro ero sicuro mi avrebbe portato prima o poi dritto dritto alla tana del lupo, al tu per tu con lui stesso.
E come la luna si rispecchia nel mare, i suoi occhi una sera si trovarono a riflettersi nei miei. Faccia a faccia, nel silenzio della notte, io e Hale ci eravamo scambiati solamente sguardi, e posso giurare che quello non fu il solito Alpha. No, non lui.

Sarà stato il mio volto sconvolto dalla miriade di graffi profondi che solcavano la pelle, ricolma di sangue, che traspariva dalla sola canottiera che indossava. Sopra di essa, l’immancabile giacca nera.
«Stai bene?» sussurrai per rompere il silenzio.
Lui si limitò ad annuire.
Il fatto non è che ancora mi importasse così tanto quanto adesso mi importa di lui, ma era ferito perché aveva protetto me nonostante sapesse di non potercela fare contro il branco di Alpha da solo.

Sarà stato il sonno, la confusione del momento ma sono sicuro di aver sentito una carezza sulla guancia nel momento in cui chiusi gli occhi, e lui era di fronte a me.

L’attimo dopo c’ero solo io, il vento ed il mio cuore a mille per il tocco lieve di una mano che non avrei mai immaginato così.


* * *


Casa di Lydia.
Due settimane dopo.

Un gran chiasso, musica a mille, una folla pazzesca di gente mai vista e soprattutto tanti, tanti alcolici.
Ok che mi ero premurato di portarle un regalo, uno di quelli che nel tempo avevo collezionato, ma ora che stava scartando proprio il mio i miei occhi erano fissi sulla figura che da fuori mi fissava. Non è che ho la supervista – la figura era abbastanza lontana dal cancello d’entrata di casa Martin – ma era troppofacile distinguere dalle tenebre della notte due occhi rossi fissarmi. E poco lontano, sotto ad un lampione acceso, stava una Camaro nera splendente.
Non potevo avere dubbi su chi mi stesse fissando.

«Stiles…» mi richiamò Lydia, facendomi distogliere lo sguardo dalla figura.
«Mmm?»
«Grazie, ho detto.» finì lei abbracciandomi, con un tono che la faceva sembrare la cosa più ovvia. Peccato che la mia attenzione fosse stata letteralmente assorbita da quegli occhi rossi, occhi che erano spariti un attimo dopo essermi staccato dalla rossa.
Fuori, sotto lo stesso lampione, l’auto nera aveva appena preso vita ed era sfrecciata per la strada deserta.
Della figura, nessuna traccia.

* * *

Casa McCall.
Cinque settimane dopo.

Non credo sia mai stata mia intenzione aizzare un lupo mannaro contro un automobilista, eppure dopo che io e Scott ci eravamo svegliati di soprassalto, dovemmo alzarci e correre in strada perché unaCamaro nera, appostata poco lontano dalla casa di Scott, era stata presa di striscio da un uomo ubriaco al volante.

Il fatto è che in realtà era stato Scott a svegliarsi per il frastuono, per la voce dell’Alpha che inveiva contro l’uomo. Io, avrei preferito rimanere a dormire piuttosto che essere preso di peso e tirato giù dal letto.
Dopotutto ero lì appunto per dormire…

Qui le cose erano due: o restare a guardare o tentare di tamponare la situazione. Seriamente con Derek Hale poteva scapparci il morto.

Così ci ritrovammo in strada ben presto.
«Forse non hai capito con chi hai a che fare…» sibilò Derek girato verso l’umano.
«Con un lupo grooosso e cattivo, vero? Ahahah. Dai Derek, perché non vieni a casa di Scott e ti calmi? Davvero. L’ha solo sfiorata l’auto, dai. Non è niente di che, un graffietto… poi la madre di Scott ha lasciato qualcosa da mangiare in frigo e scommetto che non ti dispiacerebbe assaggiarne un po’, vero?» tentai di sdrammatizzare. Cercai di non fare nemmeno caso a quanto l’Alpha fosse stato sorpreso dal vedermi arrivare. Non so,… potrei dire di aver visto nei suoi occhi spalancati una punta di timore.
In risposta alla mia chiacchiera Derek ringhiò guardando me, poi lo rifece rivolgendosi verso l’umano.
E lo sguardo che gli rivolse fu diverso da quello che aveva rivolto a me, all’uomo aveva mostrato uno sguardo carico di rabbia, mentre a me – avrei giurato – uno rassicurante, caldo, gentile, nonostante avesse ringhiato.

Non pensavo che quella notte avrebbe cambiato ogni cosa.








«Sai Derek… » iniziai grattandomi la testa; Scott era appena uscito dalla stanza per prendere il materasso ed il cuscino in più, ma sapevo che era solo un espediente. Scott sapeva di cosa succedesse negli ultimi tempi, e più che altro era stato lui a farmi aprire gli occhi sul fatto che ovunque andassi io c’era anche Derek nascosto da qualche parte o a distanza di sicurezza «Hai presente quando ti senti osservato sempre? Cioè, nel senso che ti senti osservato sempre dalla stessa persona. Che… stranamente è sempre lì. E vorresti trovare un modo gentile per chiedergli… “Perché?!”»

Ok, avevo appena lanciato il sasso e nascosto la mano, con il “Ehm, lascia perdere” che mi era uscito in un tono acuto e sussurrato, subito dopo aver terminato il discorso che non avevo avuto tempo di prepararmi.
«Ricerche. E poi ci sono ancora gli Alpha in giro…»
Quant’è vero che la persona che mi trovavo di fronte non si chiamasse Miguel, Derek non sapeva affattoinventarsi delle scuse credibili.
«Mi stai dicendo che mi stai scortando notte e giorno, anche quando ho Scott con me? Lo sai che non ha senso, vero?»
Stavo rischiando il tutto per tutto, ma tanto valeva arrivare fino in fondo. Tanto Scott era in ascolto, così se fossi morto inspiegabilmente, mangiato da un leone di montagna, qualcuno avrebbe saputo la verità sulla morte eroica di Stiles Stilinski.

«Non sono affari tuoi.» terminò Derek continuando a sostenere il mio sguardo. Il fatto è che nei suoi occhi si era appena materializzato un muro di bugie. Non chiedetemi perché; non sono mai stato bravo a comprendere cosa succedesse negli altri e non lo sono tutt’ora, ma sono sicuro che si fosse appena nascosto dietro una maschera.

«Certo, vero? Non sono affari miei.»
«Esatto.»
«Beh, allora smettila di seguirmi.»
Sbattei la porta uscendo dopo aver chiuso io una conversazione che per la prima volta non avevo voglia di continuare.

* * *

Peccato che Derek Hale non mi abbia lasciato mai un attimo  di tregua, e che non abbia rispettato ciò che gli avevo detto di fare.
Fu così che una sera, circa una o due settimane dopo, uscii a buttare la spazzatura nel secchione, e per un attimo mi fermai sui gradini ad ascoltare.
Che cosa?
Il silenzio.

Proprio così, c’era estremamente troppo silenzio.
«Guarda che puoi uscire fuori.»
Non ebbi nessuna risposta, nemmeno la seconda volta che pronunciai le stesse parole, tanto che pensai di parlare al vento, che fossero solo mie paranoie, ma nel momento in cui poggiai la mano sulla maniglia, sentii un fruscio di vestiti vicino la pattumiera che avevo lasciato poco lontano dal ciglio della strada buia.
«Fai un po’ come ti pare.» sussurrai sperando che non sentisse, ma sapendo che alle sue orecchie il messaggio era arrivato chiaro e nitido.

Dentro mi aspettò la cena ovviamente in compagnia di papà, che mi lasciò ben presto per visionare le carte di un nuovo caso di omicidio.
Così sparecchiai e lavai tutto, nonostante continuassi ad avere quella situazione di essere fissato.

«Papà, io vado a dormire, eh, che ho sonno.» dissi prima di entrare nel salotto «Buonanotte.»
Scoccai un bacio sulla sua guancia, e lui ricambiò il saluto prima di riabbassare gli occhi sui mille fogli sparsi sul tavolo.

* * *
Casa Hale.
Un mese dopo.

Non contento di quanto l’Alpha mi fosse perennemente alle calcagna, decisi comunque di accompagnare Scott proprio a casa del mio investigatore privato. 
Lì, già vi erano tutti, chi seduto chi in piedi, al centro del grande salotto grigio. Jackson ovviamente non fece che guardarmi male, quasi allo stesso modo di Derek che, dopo aver visto me, mi stette più alla larga possibile, evitò di parlarmi troppo.
E la cosa peggiore è quando tutti parlano, tutti sono coinvolti e tu sei l’unico deficiente a guardare ed annuire, chiedendoti perché diamine stai ancora aspettando che qualcuno si accorga di te.
Ecco, forse più che vedere Derek Hale seguirmi come un segugio, la prima cosa che mi manda davvero in bestia è quando si viene totalmente ignorati…

«…Scott, tu vai con Isaac a controllare tutto il perimetro del bosco. Boyd ed Erica, voi perlustrerete la città. Io mi occuperò del casale abbandonato. Per ora sembrano non essere lì, ma se li trovate, pedinateli e datemi notizie. Avvertitemi.  Sono stato chiaro?»
Tutti annuirono e presero ad uscire dal salotto.

«E-e… e io?»
«Tu stanne fuori.»
«Che cosa?»
«Ho detto: stanne fuori, Stiles.
Non ci servi.»

Guardai confuso Derek che mi dava le spalle. L’aveva fatto per tutta la luuunga conversazione che avevamo appena terminato.
Ma avete presente quando nonostante tutto, nonostante tu abbia tanto da dire, da rimproverare, c’è qualcosa che dentro di te si è rotto? Non ne hai sentito il rumore, ma sai che qualcosa è andato irrimediabilmente in pezzi.

Ecco, l’unica cosa che dissi prima di uscire fu semplicemente «Va bene.»
E decisi che con ciò sarei definitivamente uscito dalla sua vita.


* * *

Avevo smesso di contare i giorni, di pensare, di sentire Scott o chiunque altro. Nel mio essere pagliaccio, ancora una volta ero riuscito a nascondere tutto a mio padre.
Scott sapeva benissimo il perché avessi smesso.
Avevo chiuso con il loro mondo.
Avevo smesso di essere l’amicone di tutti.
Anche io valgo qualcosa, e anche io dovevo sopravvivere agli altri.
Mai mi sono sentito più usato.

Derek aveva smesso di seguirmi, o più che altro ero io che avevo smesso di cercarlo fuori dalla finestra, non avevo più un valido motivo di pensarci, e meno ci pensavo, meglio era.
Derek si era materializzato solo una volta a lacrosse e quella mi bastò per smettere anche di fare sport.
Non aveva senso dover vedere sia lui che Scott che Isaac.

Credo passarono settimane, più di una sicuramente.
E mentre il tempo passava, il caldo estivo aveva lasciato finalmente arrivare il primo freddo, i primi venti che fanno venire la pelle d’oca.
Scott aveva smesso di bussare alla mia porta, aveva smesso di chiamare al cellulare.
Allison aveva smesso di assillarmi con domande e discorsi sul branco.
Non ne volevo sapere più niente.
E morivo più lentamente, più dolorosamente di quanto non lo facessi prima quando Derek immergeva i suoi occhi nei miei.



Casa Stilinski.
“...”

Tutto era andato per il peggio. Avevo deciso di perdere tutto.
Quella sera mio padre venne chiamato in centrale.
Quello che trovai sul tavolo fu uno dei suoi soliti bigliettini.
E come al solito mangiai da solo, accompagnato dal suono della tv in sottofondo. Lavati i piatti andai a dormire.

Non sono uno che la notte si sveglia, si alza e va a fare chissà cosa, ma stavolta il freddo che entrava dalla finestra mi destò dal sogno.
Chiusi energicamente il vetro per poi poggiarmi sul davanzale.
Perché continuavo a sognarlo?
Chiusi gli occhi sbuffando, poggiando la testa sul vetro freddo.
Era impossibile tenerlo fuori dalla propria vita, per sempre…

Qualcosa cadde dietro di me, più precisamente lo zaino che avevo lasciato in piedi in mezzo alla stanza, fece un tonfo e mi voltai verso la persona che stava imprecando a bassa voce.
«Che ci fai qui?» chiesi assumendo io stavolta l’aria da misantropo-Alpha.

«Perché stai evitando tutti?» chiese Derek.
«Perché dovrei risponderti?» lo imitai.
Lui alzò gli occhi al cielo prima di riprendere «Perché sono affari miei.»
«Non mi pare proprio.» risi freddamente.

Lui ringhiò avvicinandosi a me, per poi afferrarmi saldamente le spalle prima di scoccarmi un bacio sulle labbra. Ovviamente avevo provato ad evitare il contatto, ma stavo facendo i conti con un licantropo, per di più Alpha e grande quanto un armadio.
Non è che avessi tutte queste grandi possibilità di scappargli.

Premette solo per un attimo le labbra sulle mie, e anche se lieve, quel contatto mi era piaciuto, troppo.Così gli poggiai velocemente le mani sul viso quando fece per staccarsi, e lo avvicinai tenendolo saldo tra i palmi delle mani, come per non farlo scappare.
Le sue mani scesero sui miei fianchi, attaccando i nostri bacini mentre io saggiavo, mordevo e tiravo delicatamente le sue labbra con le mie.
Non ero certo di cosa stessimo facendo, dovevo anche essere arrabbiato, ma inspiegabilmente mi ritrovai a far scendere le mani fredde sul collo caldo, sentendo Derek gemere – non so se contrariato al contatto con la mia pelle fredda o perché gli piacesse. Lo abbracciai e le sue mani scesero dai miei fianchi alle gambe, tirandomi su senza fatica e facendomele incrociare ai suoi fianchi.

Perché mi trovassi con la schiena poggiata al muro, perché mi stessi facendo toccare da lui ovunque senza fermarlo, quello era il vero mistero.
Perché fossimo allacciati in un abbraccio, in un bacio che sapeva di tutto – di amore, di consapevolezza che ogni cosa sarebbe andata per il meglio – non lo ricordavo nemmeno.
Era tutto confuso, una miscellanea di colori, ma l’unica cosa che rimaneva nitida ed intatta nella mia testa era il ricordo del tempo che aveva capovolto ogni cosa, fatto rifiorire sentimenti andati, bruciati.
Perché forse Derek non è mai stato la persona più giusta per una relazione come quelle dei film, ma nell’errore ci siamo trovati a condividere tutto, ad amarci quando il mondo crollava su se stesso.
Gli stavo permettendo tanto, più di quanto permettessi agli altri.
Non riuscivo a pensare, o più che altro non volevo farlo.
Non pensavo affatto.

Sapevo quanto fosse sbagliato attaccarmi a lui. Sapevo quanto fermarmi nella foresta con il lupo cattivonon mi avrebbe portato alla luce, ma nel buio, nel caos. La mia mente aveva smesso di ricordami quanto fosse sbagliato, ma il suo tocco mi mandava in tilt.
Stavamo facendo di tutto per rendere giusto quello che doveva essere sbagliato.
E tirava fuori un me che non conoscevo, un me che non avrei mai immaginato – questo l’avrei capito col tempo.


Le mani di Derek si piegarono sull’orlo dei pantaloni ed i boxer, tirando via entrambi con pochissima difficoltà, pur tenendomi in braccio.
So quanto non riuscissi a pensare, a quanto fosse assurda ed eccitante quella situazione, ma mi scappò una risata pensando che adesso capivo come si sentisse un quadro.
«Che ti ridi?»
«Niente.»

Il problema è che mi stava denudando mentre lui restava rigorosamente vestito, e per quanto non abbia pensato – troppo – al corpo di Derek prima di quel giorno, mi ritrovai a desiderarlo.
Smisi così di baciarlo, mettendogli una mano sulle labbra quando tentò prepotentemente di riattaccarle alle mie.
«Derek… sinceramente… perché lo stai facendo?» ecco quella scintilla di integrità mentale. Buone notizie: ancora non avevo perso del tutto la ragione.

«Secondo te?»
Hale mi guardò, cerco la risposta.
Sembrava non trovasse le parole, tanto che sbuffò e ringhiò girando per un attimo il volto verso la luce accesa del corridoio.
«Senti. Davvero, se… se sei qui per una sveltina sappi che “A” non ti puoi sbrigare troppo perché sono ancora vergine e “B” non sono il tipo da sveltine. Mi dispiace.»
Peccato che nonostante tutto non volesse ancora mettermi giù.
«Quindi, t’importa di me o no?» la mia voce vacillava…
Volevo la verità, ma da una parte volevo anche non avere una risposta. Se avesse fatto male lo avrebbe fatto fino in fondo.
«M-ma che… SECONDO TE? SAREI QUI ADESSO? Mi pare ovvio che mi importi, no?» mi ringhiò.
Tirai un sospiro di sollievo e non riuscendo a guardarlo negli occhi, presi a fissargli il collo, la parte dove la barba leggermente visibile lasciava spazio alla pelle morbida.

Era stata una risposta positiva.

«Scusa.»

E ora direte “Chi cavolo ha parlato?”.
Beh, l’avevamo fatto entrambi; all’unisono ci eravamo chiesti scusa, scusa per le occhiatacce, per quanto io mi comportassi ultimamente da bambino e per le parole che lui aveva rivolto a me, le delusioni, l’esserci ignorati per starci il più lontano possibile quando in realtà di distanza non ce n’era più…

Annuimmo e lui prese delicatamente il mio mento per far combaciare i nostri sguardi. Mi baciò per poi staccarmi dalla parete e portarmi in braccio fino al letto.
Inciampò di nuovo sullo zaino imprecando, e non potei che ridere.
«Guarda che stava là anche prima. Non si è mosso.»
Non fu proprio un ringhio la risposta, ma qualcosa di meno minaccioso, senza quel suono gutturale di quando un cane ti avverte mostrandoti i denti.
Non so come spiegarlo, ma ciò che aveva fatto, il suono, mi volle semplicemente far capire quanto stesse cambiando, quanto in realtà teneva a me e che ora che ci eravamo svelati per quello che eravamo, non c’era più bisogno di nascondersi.

Con una mano spostò le coperte, per poi chiudermi tra queste e il materasso. Mi aveva poggiato con cura, senza mai smettere di guardarmi negli occhi.
Mi misi sul fianco e lui si sedette al lato del letto, rimanendo in contatto con le mie ginocchia nascoste dalle coperte calde.
Le sue mani scivolarono leggermente dietro la sua schiena, ed una si collocò dietro le mie ginocchia.

Sbuffò guardando la luna che faceva capolino dalla finestra.
Era piena.
«Ma è la luna piena.»
«Sì. Lo so… magari è anche colpa sua se ho fatto quello che ho fatto.»
«E te ne pentirai…» volevo domandarlo, ma suonò più come una affermazione.
«No che non mi pentirò.» voltò lo sguardo verso di me nel dirlo, e la sua mano accarezzò la mia gamba.
«Scott come sta?»
«Sta bene, ma gli manca parlare e scherzare con te. Manchi a tutti.»
«Potrei tornare…» sussurrai.

Sorrise.

«Mi pare siano fatti miei, no?» disse tornando serio.
«Eh?!»
«Continuavo il discorso di prima.»
«Ah, ehm…»
«Allora.»
«Ci sono rimasto male, ecco.»
«Lo so. Non avrei mai dovuto trattarti in quel modo…»

«Perché mi seguivi?» trillai sorridendo.
«Stiles.» ecco, come mi mancavano i suoi rimproveri.
«Che c’è…? Puoi dirlo ora che eri già pazzo di me.»
«STILES…»
«Uffa, però…»

«Facciamo un patto.»
«Un patto con il lupo? Di solito non si facevano con i demoni degli incroci*?»
«Facciamo. Un. Patto.
Se te domani vieni da me, continuiamo quello che abbiamo interrotto.
Ma devi tornare a fare parte del gruppo.»

Stavolta fui io a ringhiare «E va bene…»
Lui si alzò facendo per andarsene, riaprendo la finestra.
«C-che fai?»
«Vado, tuo padre sta per tornare.»
«Cosa? Ma no…» non terminai nemmeno la frase, fui interrotto da qualcuno che apriva la porta di entrata con le chiavi

«O-ok, ma… prima non è che puoi… sai, salutarmi…?»
Derek sorrise tornando su di me per un attimo, facendo toccare leggermente le nostre labbra.
Sapeva che se avesse fatto diversamente l’avrei stretto a me, che se mi avesse baciato come aveva fatto poco prima non lo avrei lasciato andare, a costo che mio padre ci avrebbe scoperti.